Bulaj, fotoreporter ai confini dell’anima
“Dove gli dei si parlano” sono le ultime oasi d'incontro tra fedi, zone assediate dai fantasmi armati, patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca e dove, dietro ai monoteismi, appaiono segni, presenze, gesti, danze, sguardi. A cercare questi luoghi nei suoi viaggi è la grande fotografa e documentarista di origine polacca, nota a livello internazionale, Monika Bulaj, che nel 2014 ha ricevuto il Premio Nazionale Nonviolenza, assegnato per la prima volta a una donna. Where Gods Whisper (Dove gli dei si parlano) è anche il titolo del libro edito da Contrasto, un volume prezioso per il suo contenuto di immagini, storie, sentimenti, le cui fotografie abbiamo visto scorrere sul grande schermo al Cinema Teatro Nuovo di San Michele, accompagnate dai racconti della stessa fotografa in una performance intensa, promossa dal Circolo Fotografico Veronese in collaborazione col Circolo Legambiente Fagiani nel Mondo, associazione che promuove il turismo responsabile. Visibilmente emozionato nel presentarla, Stefano Venturini ha raccontato come sia rimasto subito conquistato dalle sue fotografie, «dalla sua ricerca antropologica, dalla delicatezza con cui attraversa e custodisce luoghi così fragili». Si è già dentro l'atmosfera quando si inserisce la presentazione di Caterina Martinelli, geografa culturale del Dipartimento Cultura e Civiltà dell'Università di Verona; la poesia a teatro poco si sposa con le nozioni. Poi arriva il buio e la vita si rivela al nostro sguardo nella luce. Per meglio dire, “persone, vite, anime” si svelano attraverso immagini e parole che volano da un viaggio all'altro, da un'emozione a una visione; si fa fatica a seguirla, ma le sue sono volutamente “schegge” che ci fanno entrare, uscire e rientrare in mille storie diverse attraverso una partitura visiva fatta di immagini, film, suoni e racconti. Ripercorriamo i suoi viaggi attraverso la sua ricerca sui confini delle fedi, sulle minoranze etniche e religiose, sui popoli nomadi, sui migranti, sugli intoccabili e i diseredati. Il tema della diversità nutre il lavoro sul passato e quello odierno, sviluppandosi nelle ombre delle guerre di oggi dove le persone di fede diversa non possono professare liberamente. Il sacro si esprime in tanti modi, si carica ancor più di pathos dove si rompono i confini tra ebrei, cristiani e musulmani. Sono schegge che narrano il mistero della devozione passionale di mistici, poeti, analfabeti, scoperti dalla Bulaj nei suoi lunghi viaggi nei posti più disparati del mondo: dal cuore dell'Asia all'America Latina, dal Maghreb al Medio Oriente, dalle sorgenti del Nilo alla foce dell'Onega, in Africa o in Grecia, in Afghanistan o ai Caraibi. Un lavoro che è mutato nel corso degli anni: «All'inizio documentavo piccole e grandi religioni all'ombra di guerre antiche e recenti, e sulle loro ceneri. Poi», spiega la stessa Bulaj, «sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell'acqua e del fuoco, della memoria, della festa dei morti, della via dei canti». Quello che ha fatto nel corso degli anni è stato «raccogliere schegge di un grande specchio rotto», miliardi di frammenti incoerenti, «forse mattoni della torre di Babele», tessere di un mosaico che non sarà mai completo, «sognando quell'immagine intera del mondo che magari da qualche parte c'è, o forse c'era e s’è perduta, come la lingua di Adamo». Monika Bulaj ci dona la poesia dei luoghi attraverso il cuore dell’incontro. Cerca nel suo taccuino le parole giuste da dire, i ricordi, si muove sul palco e muove le mani proprio come se fotografasse alla ricerca di quella alchimia perfetta tra tempo e luce che qui si trasforma in parola e immagine. La luce è tutto, è qualcosa che si può vedere nel buio. «Mi piace graffiare con la luce», sussurra, «lavorare con piccolissimi lampi». Le sue foto a colori sembrano quadri. Tocchi di colore delicati, sensuali. Le sue foto in bianco e nero attraversano con la stessa potenza il candore del bianco e la matericità del nero. Su ognuna poseresti a lungo il tuo sguardo.